STRESS MECCANICO, Pauline THYSS
Dalla costrizione meccanica alla narratività del gesto
Utilizzando i materiali tradizionalmente impiegati nell’edilizia (cartongesso, lamiera, piombo), si interessa alle loro proprietà fisiche, alla loro resilienza, alla loro riminescenza, ecc. sollecitazioni meccaniche. Questo concetto, utilizzato nella scienza dei materiali, valuta la capacità elastica e plastica di un componente di assorbire gli effetti di torsione, tensione o pressione. Florian Pugnaire si affida ad alcune specificità – la flessibilità del piombo, la resistenza del metallo, la fragilità del cartongesso – alle quali impone una forza di lavoro che talvolta può portare i materiali al punto di rottura. Per farlo, l’artista utilizza strumenti meccanici come cinghie, argani, paranchi e cilindri idraulici, che talvolta sono parte integrante dell’opera. Questo utensile viene deviato dalla sua applicazione ordinaria per operare vincoli e deformazioni, creando un vocabolario plastico la cui estetica industriale, qui tormentata, tende al crollo, alla rovina, al degrado…
Le opere di Florian Pugnaire sono i resti della sua battaglia con la materia, poiché considera lo studio il luogo in cui pratica la battaglia dell’arte: lì si confronta con gli elementi in una lotta in cui ogni round mette alla prova le rispettive capacità fisiche. Il suo approccio alla scultura è quindi fondamentalmente definito da una dimensione performativa, caratterizzata dall’azione e dal coinvolgimento del corpo. In questo senso le sue sculture sono opere aptiche: il tatto e la percezione di sé nell’ambiente sono al centro del suo processo. Mentre nel suo studio in duo con David Raffini esplora il campo scultoreo attraverso installazioni monumentali o “opere-evento”, produce opere individuali a misura d’uomo. Tuttavia, la questione del processo è centrale in entrambe le pratiche, che potremmo chiamare azione-scultura ¹: come nell’azione-pittura, il gesto è più importante del risultato.
C’è una forma di indeterminazione nella sua pratica, in quanto l’esperienza guida il processo: le sue sculture sono sia riproducibili (una volta stabilito il processo di realizzazione) sia singolari, in quanto sono ogni volta il risultato di un’azione unica. In questa prospettiva, la pratica di Florian Pugnaire è in linea con la teoria del l’antiforma ² sostenuta da Robert Morris e che comprende artisti come Eva Hesse, Bruce Nauman e Barry Flanagan: nel produrre le sue opere, non cerca una figura precisa, ma trova la sua forma manipolando la materia. Anche le somiglianze formali con l’opera di Eva Hesse sono talvolta evidenti: le sue lastre metalliche vincolate da una cornice metallica(Untitled, 2016) riecheggiano Aught (1968), un’opera realizzata con lastre di plastica tenute al muro da una cornice di nastro adesivo. Ma il suo approccio combattivo al processo lo allontana dalle opere gentili diAnti-form : le sue sculture sono dinamiche, visivamente a volte violente, persino violente.
Florian Pugnaire propone quindi potenzialità formali piuttosto che forme determinate: congela il materiale in un determinato stato in un momento decisivo, empirico “T”. Questo processo produce fermi immagine che generano forme riconoscibili (un sacco da boxe, una bandiera) o istantanee (piegatura, torsione, compressione). Ad esempio, la serie di sculture in piombo (2016): l’artista utilizza la stessa quantità di materiale – lastre di 60 x 90 x 0,1 cm – che lavora in cinque varianti. Un nodo denso e tortuoso si dispiega gradualmente in un drappeggio arioso, che sembra fluttuare con leggerezza. La forma si evolve così da un semplice gesto, la massima torsione di una foglia (il nodo) alla creazione di un’immagine, una bandiera eretta. La decostruzione del movimento, quasi cronofotografica, produce qui l’idea visiva della durata. Una sorta di linea del tempo con diverse potenzialità formali, che produce una narrazione plastica, una narrazione silenziosa. Ci riporta alla storia del gesto scultoreo, dal drappo classico alla mano di Richard Serra che cattura il piombo (1968).
In altre opere, questa narratività è piuttosto suggerita, ma la forma contiene sempre un’analessi (o un’analisi). flash-forward) nel suo movimento: il Costrizione (2016) è potenzialmente totalmente distrutto, la lamiera di Attraversamento (2016) potrebbe passare attraverso il muro, il sacco da boxe di Senza titolo (In altre parole, la forma contiene sempre l’anticipazione della sua distruzione totale e irreversibile. Questa temporalità si basa quindi sull’entropia del materiale, che tende naturalmente a uno stato di disorganizzazione, e sul gesto, grazie al quale l’artista mantiene questa disposizione al caos in uno stato transitorio.
D’altra parte, questa narrazione plastica contiene due forme di prolessi (o flashback). Una memoria storica che si traduce in riferimenti artistici a volte antagonisti (la scultura greca incontra il minimalismo, il ready-made gioca con l’arte processuale…) e una reminiscenza molto più specifica, quella del tempo di elaborazione. Questo passato, solitamente invisibile in un’opera finita, ci rimanda indirettamente allo spazio dello studio e alle innumerevoli potenzialità di un lavoro in corso: “Presto particolare attenzione alla nozione di studio come luogo di pratica, ma anche come luogo di azione, un luogo intermedio dove la finalità dell’opera non è ancora definita e dove tutto può ancora essere inventato o modificato”.
Finzione del processo: video e film
Dal terzo anno di studio a Villa Arson, Florian Pugnaire documenta i suoi gesti sotto forma di film. Inizialmente concepiti come archivi, questi video si sono rapidamente liberati da questo status per diventare opere a sé stanti. Importante è stata poi l’influenza di Bruce Nauman, in particolare dei suoi video della fine degli anni Sessanta in cui l’artista mette in scena se stesso in studio, compiendo un gesto semplice e ripetitivo (camminare, stare in equilibrio su un piede, rimbalzare su un muro…). Questi gesti elementari sperimentati sotto forma di azioni filmate, non senza legami con il lavoro di danzatori come Merce Cunningham e Trisha Brown o con il teatro di Brecht, permettono a Nauman di testare le modalità: quelle del corpo che interviene nel tempo e nello spazio, quelle dei limiti di rilevanza di un’azione, e persino quelle del corpo come materiale primario dell’opera.
Il suo primo video era destinato a documentare la realizzazione di una scultura: in Dialogue with Sculpture (2004), lo vediamo prendere a pugni per tre minuti un sacco da boxe in lamiera di alluminio. Consapevole della dimensione performativa della sua azione, si è filmato da tre diverse angolazioni per ottenere una visione completa. Racconta: “È stato quando ho importato i media dai tre nastri che mi sono reso conto dell’impatto del montaggio: le mie tre telecamere non solo erano intorno all’oggetto, ma inquadravano anche tre diversi valori di inquadratura che, con il giusto ritmo, davano un aspetto dinamico all’azione”. Mentre la mia intenzione era quella di realizzare una scultura in modo performativo e di documentare il processo, mi sono reso conto che l’archivio che avevo prodotto era parte integrante dell’opera nella sua interezza”.4 Da questo iniziale desiderio di testimonianza, quindi, è scaturita una riflessione sul mezzo video stesso, che ha portato l’artista a pensarlo in termini di caratteristiche proprie; nel corso del tempo, le riprese, le inquadrature, la gradazione dei colori, il sonoro e il montaggio dei suoi film sono stati perfezionati e ora conferiscono alle sue opere una dimensione realmente cinematografica.
I temi che affronta nei suoi video sono gli stessi della scultura: mette in discussione i processi di realizzazione dell’opera mettendo in scena costrizioni, trasformazioni, distruzioni… Troviamo un’estetica del cantiere e dell’officina e lo stesso vocabolario plastico (metallo, gesso, paranchi, cinghie…). Ma rivelando la fase processuale nel tempo e non solo nello spazio, Florian Pugnaire la trasforma in un’esperienza di finzione. Qui la narrazione dell’opera non si basa più solo sull’entropia del materiale e del gesto, poiché l’immagine in movimento induce di per sé una temporalità. Spesso accompagnati da installazioni provenienti dal set cinematografico, i suoi video interrogano in modo complesso il tempo creativo distorcendolo: analessi e prolessi si sovrappongono, confondendo la linearità della narrazione; l’opera si rinnova continuamente tra costruzione, distruzione e ricostituzione.
Mentre i suoi primi lavori video si concentravano sull’archiviazione dell’attivazione di una scultura processuale, Florian Pugnaire ha rapidamente autonomizzato il gesto per produrre movimenti che sembrano essere indotti dal processo stesso, senza l’intervento umano. In spazi indeterminati, tra la terra desolata, l’officina e il white cube, i suoi video dispiegano il gesto processuale per creare reazioni a catena: il set si autodistrugge e i materiali diventano attori di spettacolari catastrofi pirotecniche e meccaniche. E quando il corpo torna in gioco, come in Stunt Lab (2009) o Agôn (2016), sembra subire la stessa straordinaria forza: i gesti sono distruttivi e gli organismi sono trattati male come i materiali che li circondano. Quando guardiamo i suoi film, pensiamo a Il viaggio dei sogni (Il corso delle cose(1987) di Peter Fischli e David Weiss, in Stivali d’acqua (1986) di Roman Signer o Sculture di un minuto (1997-1998) di Erwin Wurm: sculture provvisorie, in equilibrio precario, che lasciano in sospeso o attivano una catastrofe imminente e programmata, mettono in gioco, con un’intensità drammatica irrisoria, i fondamenti della pratica scultorea come forma determinata e immobile.
Ma i film di Florian Pugnaire hanno una gravità che è estranea a queste opere: avvolti in un’atmosfera strana, a volte da incubo, ci riportano al film fantastico. In Paramnésis (2011), osserviamo una successione di eventi che si svolgono in spazi diversi, inizialmente immacolati e circoscritti, poi sempre più sporchi e indeterminati. Si verificano diverse reazioni meccaniche: impatti, flussi, assorbimenti. L’atmosfera si fa malsana, inquietante: l’acetone scorre sul polistirolo, che si scioglie creando fili nerastri, evocando Alieno (1979) di Ridley Scott; una lastra di metallo sprofonda in un muro per lasciare un buco, nero come il nulla… “Nello spazio, nessuno ti sentirà urlare”, sembrano dirci questi poveri materiali torturati. Nello spazio, nessuno vi sentirà urlare”, sembrano dirci questi poveri materiali torturati.
Le opere che crea con David Raffini hanno qualcosa di più romantico. I loro video, i cui protagonisti sono solitamente veicoli (terne, furgoni, automobili), sono i soggetti di una poetica della metamorfosi, che conduce la finzione processuale alla fantasmagoria. Da questi video sono nate sculture realizzate con queste macchine: giocando con un’ellissi tra tempo cinematografico e tempo reale, queste opere spesso violente – la ruspa in In Fine si ripiega su se stesso, ilEnergia oscura è smembrato – ci rimandano alla finzione della loro creazione. Il racconto filmato della loro metamorfosi è allo stesso tempo reale (gli effetti sono meccanici, non digitali) e mitico: viaggiamo con loro attraverso terre desolate e pianure abbandonate, simpatizziamo con le ineluttabili trasformazioni che subiscono e finiamo per attribuire loro una dimensione antropomorfa e ontologica. “In Dark Energy, o In Fine, i dispositivi meccanici sono mostrati sia come “utilitari” che come fantasmaticamente glorificati, umani ed extra-umani. (…) Così, queste macchine meccaniche sono associate all’idea di un’ancestralità quasi mitica, mentre sono metaforiche del “nuovo”. homo faber “Questa definizione dell’uomo come perennemente inquieto, perennemente preso dal desiderio di fare – e di conseguenza di trasformare – il suo ambiente “5 . Christinedi Stephen King pubblicato nel 1983 e adattato da John Carpenter nello stesso anno, oppure Crash! di Ballard (1973), adattato da David Cronenberg nel 1996: la macchina diventa mortale, elevata a simbolo della condizione umana e veicolo della nostra stessa fine.
Agôn (2016) è la somma di tutte queste riflessioni ed è l’opera più sincretica di Florian Pugnaire. Vediamo due lottatori confrontarsi, intrappolati in un loop senza tempo. Il set prende vita e si trasforma intorno a loro per poi autodistruggersi: trasportati in questa scenografia in continuo cambiamento, gli attori sembrano assorbiti dalla violenza della loro stessa azione, quasi indifferenti alle reazioni brutali che li circondano.
Anche in questo caso, Florian Pugnaire parla di processo e Agôn è certamente un film sulla scultura, ma anche un’opera veramente cinematografica. Il filo narrativo si basa su una reazione a catena che ci conduce in una successione di spazi in cui si svolge la battaglia. Il montaggio alterna primi piani sull’azione dei due protagonisti a riprese ellittiche che rivelano la scala dell’ambiente, creando variazioni dinamiche di ritmo. Il suono crea un’atmosfera fantastica e allo stesso tempo trasmette l’aspetto realistico del combattimento. Vicino ai corpi, si concentra sugli impatti e sull’impeto del respiro mentre si evolve in base ai cambiamenti dello spazio, ricordando a tratti l’inquietante Polymorphia di Krzysztof Penderecki (1961), utilizzata da William Friedkin ne L’esorcista (1973) e da Stanley Kubrick in Shining (1980). Questa atmosfera ansiosa si innesta nell’estetica dello studio: la costruzione e la decostruzione del set testimonia un processo che coinvolge il fare, il disfare, il gesto, la gestazione, la scultura in divenire.
Realizzato con le tecniche professionali dell’industria cinematografica, Agôn è quindi un video d’arte in cui il cinema è integrato come riferimento e forma. Le influenze di Florian Pugnaire sono varie, ma appartengono tutte al cinema di genere: i film di arti marziali (dal Chanbara di Akira Kurosawa al cinema di Hong Kong di John Woo), il cinema fantastico e di fantascienza (Tobe Hooper, David Cronenberg, Stanley Kubrick)… Affidandosi a questo repertorio, l’artista si concede un’incursione nell’intrattenimento, portando i suoi problemi estetici verso la spettacolarità. In effetti, ci viene data un’occhiata e lasciamo la proiezione fantasticando su un improbabile remake de Il corso delle cose di Fischli & Weiss di John Carpenter.
Tuttavia, Agôn non ha nulla a che fare con le produzioni hollywoodiane: per Florian Pugnaire, la narrativa artistica deve comprendere il modo in cui l’industria dell’immagine genera codici di rappresentazione per deviarli e creare forme alternative. “Da Greenberg in poi, il flusso di immagini globalizzate, le imprese pubblicate online, le infinite repliche di produzionidi intrattenimento si sono riversate nei nostri canali di ricezione. Il gioco e la finzione sono ora inclusi nell’autoriflessione dell’arte. E a differenza dell’intrattenimento, la finzione artistica non mira a ipnotizzare lo spettatore, anche se lo lascia assorbire.6 ” In AgônLa spettacolarità gioca sullo spettacolo, l’artificio è vanificato dalla messa in scena reale e performativa dell’azione, e la violenza pone un asse di riflessione sulla natura umana.
Infatti, pur utilizzando alcuni meccanismi del cinema hollywoodiano, Florian Pugnaire ne rifiuta la visione manichea. Il combattimento, come il termine Agôn e la sua polisemia 7, offre diversi modi di lettura. Dal punto di vista narrativo, è assurdo: non sapremo mai perché questi due avversari sono così desiderosi di annientarsi a vicenda e non conosceremo mai la loro storia. L’assenza di contesto trasforma l’esperienza filmica in una potente esplorazione visiva e sensoriale che si imprime nelle nostre retine e rimane con noi per molto tempo. L’atmosfera, tutta rovine e nebbie, ricorda a tratti la Zona di Stalker (1980, Tarkovski): lo spazio fisico diventa mentale e il combattimento si tinge di una dimensione ontologica, persino metafisica. Tra gli istinti di vita e di morte, Agôn ci ricorda la vanità della nostra esistenza e la nostra irrazionale ed essenziale volontà di superarla.
Come disse Kubrick: “Un film è – o dovrebbe essere – molto più vicino alla musica che a un romanzo. Deve essere una sequenza di sensazioni e atmosfere. Il tema e tutto ciò che sta dietro alle emozioni che porta con sé, il significato dell’opera, tutto questo deve venire dopo. Si esce dalla sala e, forse il giorno dopo, forse una settimana dopo, forse senza rendersene conto, si acquisisce qualcosa che è ciò che il regista ha cercato di raccontare.8 ”
Pauline THYSS, settembre 2016
[1] Claire Moulène, nell’articolo Action Sculpture pubblicato su Code 2.0 nell’autunno 2010, definisce la pratica di Florian Pugnaire e David Raffini come segue.
[2] Articolo pubblicato su Artforum (VI, n. 8) nell’aprile 1968 in cui Robert Morris, opponendosi al minimalismo, difende un processo in cui l’artista delega la scelta artistica e il gesto alla materia. Questo articolo elenca, a partire da Jackson Pollock e Morris Louis, le espressioni americane di questo processo che “lascia parlare la materia, la gravità e il caso”..
[3] Florian Pugnaire, su Stunt Lab, 2010
[4] Intervista, Pauline Thyss e Florian Pugnaire, 2016
[5] Sylvie Coëllier, Energia oscura: cronaca di una fine annunciata, in catalogo Energia oscura, Museo Nazionale Pablo Picasso, 2014
[6] Sylvie Coëllier, Pugnaces et raffinés – Florian Pugnaire e David Raffini : une épopée des moteurs, 2013.
[7] La genealogia del termine Agôn risale agli antichi testi greci e rivela, fin dalla sua origine, numerosi spostamenti di significato. Compare nell’Iliade per descrivere l’assemblea che assiste all’istituzione dei giochi funebri, prima di evolversi nell’Odissea per designare l’arena in cui si svolgevano i tornei. Poi definisce i giochi panellenici e alcune loro specificità legate alla nozione di combattimento, come la competizione, la lotta e la rivalità. Infine, Agôn può designare il luogo del combattimento così come il combattimento stesso, la combattività e, per estensione, la giostra giudiziaria o verbale, il dibattito dialettico, la disputa teatrale…
[8] Intervista a Stanley Kubrick di Peter Lyon per la rivista Holiday (febbraio 1964)