COSÌ SIA
Jacqueline Gainon e Frédérique Nalbandian
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Jacqueline Gainon
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Mostra dal 26 settembre al 6 novembre
La mostra di Jacqueline Gainon alla Galleria Eva Vautier si basa sul dilemma tra immagine e pittura, tra memoria e fantasia, tra buone maniere e giochi proibiti. Sotto il segno del colore, due serie di grandi dipinti blu e rossi si confrontano in registri diametralmente opposti.
La serie blu, realizzata in uno stile quasi naif, fa appello ai ricordi d’infanzia dell’artista: si basa su una libera interpretazione di fotografie di escursioni in montagna tratte da un album di famiglia. Le immagini originali, scattate dal padre dell’artista nell’entroterra di Nizza, sono qui oggetto di una serie di operazioni plastiche. La loro trasposizione in un formato monumentale, il passaggio dal bianco e nero al colore e dalla resa liscia della fotografia alla materialità del dipinto conferiscono loro un’innegabile sontuosità. Infine, tutto ciò che era paesaggio viene sostituito da uno sfondo blu pastello che ricorda più la carta da parati della cameretta di un bambino che un cielo estivo. Gli elementi pittoreschi ancora presenti nelle prime versioni della serie – panorami, picchi rocciosi o calanchi – sono scomparsi per lasciare spazio a uno spazio/tempo tanto astratto quanto atemporale.
A metà strada tra un’immagine sacra e un brutto sogno, questi dipinti mostrano ritratti strani e incredibilmente pacifici in cui l’artista, ancora bambina, e i suoi familiari sono in piedi l’uno accanto all’altro in una sorta di semi-sonno. I loro occhi sono chiusi e quando sono aperti sembrano permanentemente assenti, come se ognuno guardasse dentro di sé, ignaro della presenza dell’altro. A volte le loro teste cadono di lato o i loro volti svaniscono, mentre i loro corpi sembrano galleggiare in questa distesa blu. Il loro colorito pallido fa pensare al peggio.
Se la stranezza della scena è dovuta a questo sonno collettivo, è controbilanciata dai gesti di tenerezza di questo padre e di questa madre verso i loro quattro figli. C’è qualcosa di toccante qui, ancora vibrante, che fa sperare in un lieto fine. La mente si diverte a immaginare questa famiglia ideale, viva e vegeta, con gli occhi aperti sull’obiettivo fotografico, perché queste immagini hanno qualcosa di universale, potrebbero essere anche le nostre. Ma qui l’ottica è sostituita dallo sguardo dell’artista, che tratta chiaramente i suoi ricordi d’infanzia in modo psicoanalitico mentre li disloca. Così, questi frammenti di passato riaffiorano come se l’artista non fosse in grado di ripristinare la gioiosa temporalità della sua infanzia, ma vi opponesse un eterno riposo. L’evidenza fotografica è sostituita dall’opacità della pittura con la sua materialità grumosa e tormentata.
Con tenerezza e umorismo, Jacqueline Gainon stravolge l’idea di una felicità familiare tanto più obsoleta perché andata in malora, affermando così qualcosa dell’ordine dell’incredulità nella famiglia. Dietro l’ingenuità iniziale di queste grandi icone, che sono variazioni sul tema della Vergine e del Bambino, ma che potrebbero anche essere paragonate alla pratica popolare degli ex-voto per il loro lato volutamente goffo, c’è un inesorabile senso di perdita. No, la pittura non è una cosa rassicurante, è dura e impura. E il ruolo dell’artista non è forse quello di confondere e disturbare? E così sia.
La serie rossa, invece, è infinitamente più gestuale ed espressionista. Obbedisce a un trattamento pittorico molto fluido che lascia spazio a sgocciolamenti e succhi colorati. Mentre il materiale è più trasparente rispetto alla serie blu, questa suite di dipinti è anche più scura, sia letteralmente che figurativamente.
Il film presenta un’inquietante scena a porte chiuse in cui una bambina con un vestito rosso è preda di un gruppo di ragazzi armati di mazze e pistole. È presente anche la bambina che compariva nelle immagini della serie blu con il suo vestito anni ’50, presumibilmente la sorella dell’artista. Ma mentre nella serie precedente la bambina era saggia come un quadro, qui è rappresentata in movimento, in posizioni pericolose indotte dalla violenza inflittale dai suoi aguzzini. Bendata, viene legata e picchiata. Il suo corpicino fatica a stare in piedi perché è molto malconcio. Alla fine è caduta a terra.
È difficile non essere toccati da quello che sembra essere un trauma lontano, soprattutto perché la ragazza sembra essere spinta fuori dal quadro. Se solo ci fosse data la possibilità di aiutarlo.
Ma chi sono esattamente i suoi assalitori, che emergono appena dall’ombra e la cui sagoma sembra appartenere allo sfondo scuro dei dipinti? Perché stanno attaccando la ragazza? Sembrano membri di una milizia anonima di bambini. I loro lineamenti sono sfocati come se la violenza non avesse volto. L’occhio, è vero, è interamente concentrato sul vestito rosso che vortica intorno al quadro e finisce per distrarre la nostra attenzione. Si dimentica che i ragazzi sono ancora in pantaloni corti e che i loro gesti, se li si esamina con attenzione, sono un po’ goffi e presi in prestito. E se fosse solo un gioco? Jacqueline Gainon semina il dubbio. Quindi milizia segreta o scout?
Finiamo per chiederci se l’oggetto del desiderio di questi giovani non sia anche il nostro. Va detto che l’artista ha organizzato le sue composizioni drammatizzando alla perfezione questi schizzi, con la loro prospettiva ripiegata e la luce che si immerge e che ci presenta il corpo quasi erotico di questa bambina dalla carne rosa tutta vestita di rosso. Eccoci nella pelle del lupo. Tra abusi e giochi proibiti, queste scene da incubo e soffocanti contrastano con l’immaginario epocale della serie blu e con tutto ciò che potrebbe dire sulla nozione di famiglia, ma anche e soprattutto sull’idea di pittura. Ci coinvolgono nel gioco erotico della rappresentazione in cui diventiamo voyeur.
A questa serie pittorica molto intensa si affiancano straordinari piccoli disegni a inchiostro di china e pennarello a guazzo dove la battaglia sembra a tratti riequilibrarsi. A volte la ragazza riesce a tenere a bada i suoi aggressori. La vittima diventa così il carnefice, per la grande gioia di noi spettatori. Infine, Cappuccetto Rosso, nel suo vestito leggero che si vorrebbe vedere di mussola, si arrampica su un enorme teschio dove riesce a stare in equilibrio, facendosi così beffe della morte. E così sia.
Catherine Macchi
Senza titolo, 2014, Olio su tela, 146 x 114 cm
Frédérique Nalbandian
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Frédérique Nalbandian si è diplomata all’Ecole Pilote Internationale d’Arts et de Recherches, Villa Arson, Nizza. Durante gli anni di sperimentazione di forme in divenire, ha affinato la sua scienza dei materiali e il suo interesse per la vasta e preoccupante questione dello scorrere del tempo. Il sapone gioca ancora un ruolo importante nel suo lavoro di scultrice, ma anche il gesso e il vetro. A seconda dell’occasione, queste sostanze vengono caricate con acqua, aria, pigmento rosso carminio e polvere di carbone, e vengono lasciate assorbire e persino ammaccare. Gli scambi chimici avvengono quindi chiaramente in installazioni che seguono le leggi dei paesaggi incolti o dialogano con spazi architettonici carichi di significato. In queste opere, da cui emergono sia volumi equilibrati che strutture “intatte”, l’artista utilizza motivi come il cerchio e la colonna. In altre opere che dicono qualcosa sul rapporto dell’uomo con il mondo, è una questione di orecchio e di comprensione, di mani che pregano e di quasi silenzio. Qui, recipienti con grandi superfici vibranti, là, concrezioni fatte di pieghe e meandri come quelle del cervello, ad esempio. È innegabile che questi lavori, per la loro forza ripetitiva e per il loro potere di integrazione dei segni linguistici – si ascoltino i titoli che l’artista attribuisce alle sue opere – impongano l’idea di una ricerca basata sulla poetica e perseguita da ciò che la rende così prodigiosa: lo sbocciare del significato, la sua possibile deiscenza, senza ricorrere all’argomentazione o al minimo sistema dialettico. Infine, va detto che Frédérique Nalbandian esegue una serie di disegni in cui un intreccio di riferimenti alla storia dell’arte e all’anatomia imprecisa emerge con vari gradi di chiarezza sulla carta. Una divisione, si potrebbe dire, tra il desiderio di descrivere il vortice del cielo e quello di rimettere l’uomo al centro del sistema.
Testo di Ondine Bréaud-Holland