Yosef Joseph Dadoune
Radici
e Jean-Baptiste Warluzel
Due terzi, un terzo
Mostra dal 13 marzo al 26 maggio 2018
Il lavoro di Joseph Dadoune è profondamente segnato dalla messa in discussione e dal superamento dei confini, sia che essi separino l’Oriente dall’Occidente, il potere centrale dalla periferia o l’immaginario dal reale. Alla confluenza di video, fotografia, architettura e disegno, la sua ricerca unisce la pratica artistica all’impegno sociale e alla riflessione metafisica. Tra le sue opere più importanti, il film Sion (2006-2007), prodotto dal Museo del Louvre con l’attrice Ronit Elkabetz; Calendari impossibili (2013) esposto in particolare al Museo di Tel Aviv durante le celebrazioni del centenario di Dada; e, più recentemente, Barriera protettiva (2017), una raccolta di disegni autobiografici del tempo di guerra, pubblicata da Éditions Arnaud Bizalion.
Yosef Joseph Dadoune, Poesie di Hannah Arendt, veduta della mostra © François Fernandez
Poesie Hannah Arendt
Pastello a olio colorato su carta Hänemhule 190g
84,1 cm x 59,4 cm
Serie di 43 disegni
L’archetipo di una lettera si trasforma in un blob o in una linea. L’uso del tedesco, che non parlo, mi permette di proiettarmi altrove, di essere qualcun altro. Si stabilisce quindi un linguaggio diverso. Gli amori che si trovano nelle poesie di Hannah Arendt a volte diventano fiori, a volte scritti trasformati in grano soleggiato, a volte titoli: Io e te. Io e Tu, le doppie frecce, rimandano all’andirivieni delle primavere gialle o rosa, alla soggettività degli amanti distesi nei campi di grano, ai paesaggi extrasolari. I marcatori geografici e temporali sono cancellati e lasciano il posto a uno sfondo bianco e “sonoro”, su cui si inscrivono traumi e ricordi.
Yosef Joseph Dadoune, Fiori / Dopo la guerra. Blind Spot, 2015-2016, veduta della mostra © François Fernandez
Fiori / Dopo la guerra. Blind Spot / Tel Aviv, 2015-2016
Suite di 36 pastelli a olio neri su carta
Ho realizzato questi pastelli nel mio studio, nel sud di Tel Aviv, il quartiere dei rifugiati eritrei di fronte alle torri delle ricche Gated Communities. Le ragazze e i ragazzi morti per capriccio degli dei in Ovidio diventano qui fiori o alberi, richiamando le metafore delle corone di fiori intrecciate dai Romani per i loro morti. Fiori / Dopo la guerra. I Blind Spot sono fiori anneriti dall’inquinamento fisico e politico. Le loro aste, “gambe” e radici di ferro ingrassato sono come le basi su cui sono fissati i missili antirazzo. Sono bellezze verticali; viste da lontano, formano un campo di fiori ibridi neri dove il femminile e il maschile giocano al gioco della seduzione.
Yosef Joseph Dadoune, Lost memory : Blind spot, 2017, veduta della mostra © François Fernandez
Fiori / Dopo la guerra. Blind Spot / Tel Aviv, 2015-2016
Suite di 36 pastelli a olio neri su carta
Ho realizzato questi pastelli nel mio studio, nel sud di Tel Aviv, il quartiere dei rifugiati eritrei di fronte alle torri delle ricche Gated Communities. Le ragazze e i ragazzi morti per capriccio degli dei in Ovidio diventano qui fiori o alberi, richiamando le metafore delle corone di fiori intrecciate dai Romani per i loro morti. Fiori / Dopo la guerra. I Blind Spot sono fiori anneriti dall’inquinamento fisico e politico. Le loro aste, “gambe” e radici di ferro ingrassato sono come le basi su cui sono fissati i missili antirazzo. Sono bellezze verticali; viste da lontano, formano un campo di fiori ibridi neri dove il femminile e il maschile giocano al gioco della seduzione.
Jean-Baptiste Warluzel, Due terzi un terzo, 2018
Installazione video e audio, video HD 40 min, audio stereo indipendente 15 min
Considera il video e il suono come un modo di pensare che gli permette di mettere in discussione il mondo dello spettacolo e della mostra. Attraverso riarrangiamenti, composizioni e ripetizioni, crea le sue immagini mettendo in discussione l’azione del performer, del documentarista e dell’autore.
Realizza regolarmente videoproiezioni per l’Opera di Salerno in Italia ed espone i suoi lavori in varie sedi espositive (Palais de Tokyo per i D’Days, Museo di Petach Tikva in Israele per la mostra Bibliogia).
Collabora da tre anni con la coreografa Régine Chopinot e insegna alla Toulon Provence Méditerranée School of Art and Design.
In lode dell’invisibile
Nel maggio 2008 Jean-Baptiste Warluzel e un amico giornalista sono partiti per il Sichuan con l’intenzione di raccontare il grave terremoto che si era verificato due mesi prima e che aveva provocato ottantamila vittime nella regione montuosa vicino al capoluogo regionale Chengdu. Questo rapporto è stato un fallimento perché le autorità cinesi, decise a nascondere questa catastrofe umana nel bel mezzo dei preparativi per le Olimpiadi di Pechino, hanno vietato l’accesso all’area della distruzione e controllato rigorosamente le testimonianze delle popolazioni sfollate e dei sopravvissuti a questa tragedia.
Dieci anni dopo, JBW ha ripreso le immagini scattate sul posto sotto la pressione del divieto di polizia per riformulare l’impossibilità del reportage iniziale nel campo dell’arte. Ha scelto di giustapporre le riprese delle sue immagini nell’ordine cronologico in cui sono state girate, senza alcuna altra forma di montaggio. A queste sequenze di immagini ha poi sovrapposto, in voce fuori campo, le indicazioni del piano generale del reportage, facendo sentire la costruzione logica che avrebbe dovuto dare al progetto finale la sua consistenza documentaria. Mettendo in evidenza questa disarticolazione tra il programma dichiarato e la successione di immagini che ci dà a vedere, l’artista ci pone in una situazione di estraneità percettiva che de-realizza l’oggettività del documento filmico e gli conferisce una particolare autonomia poetica.
Questa operazione si basa sulla decostruzione della linearità informativa della forma documentaria per consegnarci, gravitando intorno allo schermo dell’invisibilità che nasconde la realtà della catastrofe, gli echi periferici, alternativamente silenziosi o attraversati da informazioni contraddittorie. La frammentaria narrazione visiva che ne risulta è determinata dal ritmo caotico imposto dalla ricerca di testimonianze sotto l’onnipresente vincolo della censura. Rivelando così, a partire dalla materia prima accumulata nell’azione di ripresa, l’impossibilità di accedere a qualsiasi realtà visiva di questa tragedia, la designa anche come centro inaccessibile del suo desiderio di rappresentazione. La dinamica simbolica che mette in atto va oltre la denuncia della censura politica di cui è vittima in quanto documentarista, per arrivare a una più generale messa in discussione del valore traslativo dell’immagine rispetto alla realtà di cui dovrebbe essere un resoconto.
In questo particolare contesto, in cui l’oggetto del reportage viene rimosso e quindi non costituisce più il punto focale del racconto, Jean-Baptiste Warluzel coglie questo impedimento per inventare una nuova forma di narrazione svincolata da qualsiasi intento dimostrativo. Poi fa brillare i significati visivi di questa autonomia in un vagabondaggio filmato la cui acutezza descrittiva e il ritmo sincopato, costruiti ai margini dell’invisibile, dispiegano l’intensità degli incantesimi speculari della macchina da presa e la sua paradossale impotenza a cogliere l’essenza della realtà.
Jean-Marc Réol febbraio 2018