COSÌ VA LA LUCE
Simone Simon e Joseph Dadoune
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Mostra dal 15 febbraio al 22 marzo 2014
Simone Simon, Joseph Dadoune artista ospite
Su una scenografia di Florent Testa, artista e scenografo.
Simone Simon
La scomparsa della figura
Simone Simon ha iniziato la sua carriera nel 1978 come fotografa di moda. Lavora per la stampa, i cataloghi e la pubblicità e ha realizzato numerose campagne per marchi prestigiosi.
Dal 2002 si è dedicata alla ricerca personale, concentrandosi sulla memoria e sull’identità, fino a quando, nel 2004, ha abbandonato il suo lavoro di fotografa di moda. Questo cambio di direzione mostra un lavoro sulla scomparsa della figura, un passaggio dall’apparenza superficiale alla profondità dello spirito umano.
È interessante notare che, fin dalla sua prima serie fotografica personale, Simone Simon fa sparire gli onnipresenti modelli a favore di persone anonime: “Sur le passage de quelques personnes à travers…” le Dojo à Nice 2002: è l’inizio della scomparsa della figura.
La forma umana è ancora presente, ma è limitata a sagome annegate in uno sfondo uniforme. Sebbene i personaggi siano isolati, non sono riconoscibili.
Questa parziale scomparsa della figura diventa più radicale con le sue foto urbane: fotografa sia luoghi abbandonati dove non c’è più anima viva (Charleroi), mostra Villa Cameline 2011, sia luoghi abitati ma in quartieri disagiati “Les portes du Saint-Pierre” all’Ariane di Nizza 2009 (Le passager clandestin).
Così va la luce
Non ci sono esseri umani nel paesaggio, ma la presenza umana è visibile ovunque.
I Paesi che abbiamo attraversato sono molto distanti tra loro, eppure tutte le fotografie parlano della stessa cosa, l’assenza, l’abbandono: in Andalusia, le rovine moderne di edifici incompiuti e disabitati, un campo da golf trascurato pieno di erbacce e drappeggiato con vele a brandelli; in Lettonia, un supermercato malandato, una strada acciottolata dove gli gnomi da giardino contrastano con i graffiti anarchici su una vecchia recinzione, in Camargue, un parco divertimenti abbandonato.
Tuttavia, tutte queste fotografie riflettono un vuoto trasceso dall’estetismo della composizione e della luce, che conferisce loro una poesia ambigua.
La mostra è un’occasione per presentare il suo ultimo lavoro che mescola fotografia e video in modo intimo e fusionale. Un’intrusione nell’immagine, un viaggio nel tempo, il vento, la luce che cambia, l’immagine prende vita.
La sovrapposizione dell’immagine e del video destabilizza lo spettatore e confonde i suoi orientamenti, che viene catturato dal movimento sottile e ipnotico che dà vita all’immagine fissa.
Marie Nicola
Assistente curatore al Museo Matisse di Nizza
La fotografia non racconta (necessariamente) ciò che non è più, ma solo e certamente ciò che è stato.
Roland Barthes, La chambre claire, 1980.
Joseph Dadoune
Ospite di Simone Simon è Joseph Dadoune, artista franco-israeliano.
Il loro approccio è legato al minimalismo e alla messa in discussione dell’identità.
La fotografia definitiva
Joseph Dadoune si è fatto conoscere in Occidente e in Medio Oriente nei primi anni 2000 con notevoli installazioni video e lavori fotografici originali. In occasione di una mostra personale (Khamsin Photography, 2007) al Böhm Trade Center di Düsseldorf, ha dichiarato: “Oggi tendo a pensare che l’immagine filmata sia la semantica più appropriata, e che il cinema permetta di parlare di un soggetto concentrandone i molteplici aspetti […] L’installazione, attraverso il suo formato (montaggio, scene vissute, dispositivo), solleva anche la questione di come porre una macchina da presa di fronte a queste cose vissute tenendo a bada il pathos o il sentimentalismo. Se il mio obiettivo è usare i documenti come punto di partenza, non voglio fare un lavoro documentario. [Non cerco di creare una finzione da una realtà. Piuttosto, cerco di aprire delle porte per rendere possibili delle connessioni.
Il lavoro di Joseph Dadoune ha costantemente messo in discussione l’ebraismo, il post-colonialismo, la periferia e l’omosessualità. I suoi film e le sue fotografie fanno luce su questa violenza simbolica arcontemporanea.
Per qualsiasi creatore – con un minimo di senso della storia – c’è sempre una domanda: quale pietra aggiungere? Per Dadoune, si tratterebbe piuttosto di: quale immagine aggiungere alle immagini già presenti? Alain Badiou avrebbe parlato di nuove finzioni.
Come Ad Reinhardt, Joseph Dadoune ha deciso di seppellire l’immagine, ma senza cancellare la figura, il segno. Reinhardt amava pensare ai suoi Quadri Neri come a “un’icona libera, non manipolabile, inutile, non vendibile, irriducibile, non fotografabile, non riproducibile, inspiegabile”. Le Scatole Nere di Joseph Dadoune sono, a loro modo, parte della logica modernista degli Ultimate Paintings di Reinhardt. Queste opere, per quanto asciutte, ermetiche e chiuse – per usare le parole dell’artista – riecheggiano tuttavia realtà molto tangibili. Counter Composition V (2011) evoca una vulva tanto quanto l’omonima opera di Theo van Doesburg (1924), motivo per cui è stata presentata dalla Galerie Le Minotaure lo scorso ottobre al Fiac, accanto a opere di Hans Bellmer, Marcel Duchamp, Louise Bourgeois, Man Ray e Pierre Molinier. Con la storia contemporanea mai lontana, Black Tunnel (2013) simboleggia uno dei tunnel sotterranei costruiti dai palestinesi per trasportare cibo da Gaza all’Egitto. Palm Box ribalta l’immaginario epocale degli anni Cinquanta sui luoghi di villeggiatura. Come per Black Museum (2011), che un sostenitore dell’estetica relazionale potrebbe fantasticare come finzione collettiva, preferiamo prenderci il tempo per interrogarci sulle vite future del White Cube. Cosa c’è dietro il White Cube? Quale violenza simbolica? Quale ideologia? Quale utopia sigilla il Museo Nero? I saggi di Brian O’Doherty sono tempestivi e necessari (si veda “Inside the White Cube: The Ideology of the Gallery Space” in Artforum, 1976).
Queste fotografie, concepite in uno studio con finestre senza telaio o persiane – come occhi senza palpebre – aperte verso l’esterno, in contatto permanente con la strada, i vicini, i passanti, la vita, rimandano necessariamente a un’esteriorità, a un Altro. Ogni fotografia cerca di rispondere alle domande che attraversano questo insieme: cosa succede al di là dell’immagine? dietro l’immagine? dietro la scatola nera?
Come lo studio dell’artista, queste fotografie non sono opere chiuse; al contrario, non impongono un punto di vista o una doxa autoritaria. Sono opere aperte nel senso di Umberto Eco.
Elodie Antoine, 2014