
SL072, 2015 acrilico e olio su legno, 71 x 53 cm
Ritratti di signora
Serata di apertura in rue Vernier. Dopo aver spalancato le porte della galleria Eva Vautier, ci si trova di fronte a una fotografia di grande formato di Sandra Lecoq, di spalle. In questa foto, Sandra Lecoq, trasfigurando la sua vita quotidiana, si è messa in scena, trasformando i suoi stracci di bottega in un enorme abito da sposa rattoppato e sporcato: la sposa era nel sudiciume. È una specie di grande palo, una cariatide in piena crisi di crescita, un’Alice nel paese dei guai che invade lo spazio dal basso verso l’alto. Se si sollevasse la sottoveste, si vedrebbe lei, una ragazza intelligente, appollaiata sopra un mucchio di moduli di vernice presi in prestito da una foto del 2016: Haut les cœurs et bas de plafond, di cui Peau d’âme è una sorta di doppio invertito. Nella foto del 2016 che è servita da base per la mostra collettiva Le monde ou rien, organizzata dallo chef Karim Ghelloussi, è apparsa in grembiule, scomparendo sotto una piramide di mattoni multicolori e in equilibrio. La ragazza in salopette è lei, la bambola da fiera con la crinolina è di nuovo lei. Operaia o regina, schiacciata o dominatrice della situazione, Sandra Lecoq è sposata con la sua arte disordinata (vestito = straccio, pittura = tavolozza) da oltre vent’anni. In entrambe le foto, la sala da ballo è l’umile rettangolo piastrellato del suo studio – il suo lusso, dice – un modulo in abyme in un edificio dove si lavora, una capanna come un’aula dove si impara ogni giorno. Non è lo spazio ad essere troppo basso, ma il compito ad essere enorme, non è contro le pareti che urta, ma contro qualcos’altro. Se Sandra Lecoq apre per qualche istante la sua fabbrica, non è per rivelare i suoi segreti o per testimoniare – il suo lavoro non ha alcuno scopo documentario – ma piuttosto per mostrare il legame che la unisce a un gruppo di artisti, vicini di studio, amici, compagni di viaggio, una piccola comunità di moschettieri-artisti. Florent Mattei scatta la foto per Sandra Lecoq, Karim Ghelloussi la espone e così via, uno per tutti, tutti per uno. Da questa economia partecipativa e complice nasce la fotografia Peau d’âme et avanti jaddu! (il gallo in siciliano…) che apre la nuova mostra di Sandra Lecoq facendo del pittore il modello.
Un’inversione che è senza dubbio una chiave di lettura per comprendere ciò che segue. Perché noi che entriamo, abbandoniamo ogni certezza. Prendiamoci per mano e andiamo dall’altra parte. Una foresta di ritratti, una sala degli specchi, è ciò che stiamo per attraversare: trenta volti seri che formano una strana parentela. Se si mettessero intorno pannelli, soffitti a cassettoni, carta damascata e una ringhiera di quercia, ci si troverebbe comunque nella scricchiolante tromba delle scale di una villa, dove i volti funerari nelle loro cornici dorate fanno concorrenza ai trofei di caccia. Come sono finiti qui? Aggrappiamoci alla ringhiera e avanti jaddu!
L’effetto della sorpresa, per non dire dello stupore, è molteplice. Si tratta di una retrospettiva di opere mai esposte prima. Solo chi frequenta il quartiere del porto e i suoi bar a Nizza ha potuto vedere alcuni di loro in forma anonima nel contesto di un’anteprima che non ha mai avuto luogo. Quando al custode occasionale di questo museo effimero è stato chiesto: “Ma di chi sono questi quadri?”, l’addetto si è tolto il cappello e ha vuotato il sacco: “Sandra Lecoq”. Vi prego di credere che avete potuto vedere lo stupore e l’ammirazione sui volti degli astanti. Bisogna infatti ricordare che la storia di Sandra Lecoq con la pittura è quella di un appuntamento differito, diventato quasi impossibile a forza di ritardi. Che cosa ha detto? “Mamma Paint, che era stata implorata per tanto tempo, mi aveva deluso, troppo intransigente, troppo dura. Cosa diceva la Gazzetta? “Nel suo lavoro, il colore è intrecciato, cucito e composto. Il pennello è sostituito dall’ago, e pezzi di tessuto diventano ottime aree piatte”. O ancora: “Sandra D. Lecoq appartiene a una generazione di artisti che raccolgono la sfida della pittura dal lato dell’oggetto. Pur non utilizzando gli strumenti, i supporti e i mezzi tradizionali della pittura, il suo lavoro procede contemporaneamente dal disegno e dal colore.
Sarebbe sbagliato dire che Sandra D. Lecoq non ha mai dipinto, basta fare riferimento alla serie H de guerre (2007), dipinti che mescolano scrittura (parolacce) e variazione di gesti pittorici dove l’insulto significava anche la lotta che stava conducendo con la pittura. All’epoca, nessuno avrebbe immaginato che avrebbe fatto il grande passo, dipingendo ritratti su tela o su legno, in acrilico e a olio, che sarebbero stati poi levigati, cerati, patinati e infine esposti. Tuttavia, l’idea di dipingere esiste da vent’anni. Il suo ritratto-omaggio a Gérard Gasiorowki (1930-1986) potrebbe essere una forma di confessione. Percepisce nella maniera iconoclasta ed eterogenea del pittore che ha fatto l’oblazione di se stesso alla sua arte, uno “jusqu’auboutisme” che vuole rivendicare e che le permette oggi di fare questo passo.
In questa vita non è sempre un dono, ci voleva un gesto che fosse un dono. Come un segnale di partenza. A una persona cara, affascinata da questi dipinti di antenati in cui la cornice spesso vale più dell’opera, ha voluto offrire un giorno un ritratto, un bel ritratto di famiglia. Non avendo i mezzi per farlo, si mise all’opera, come una persona adulta. L’amore è una buona guida e nell’arte l’intuizione può prendere il posto della tecnica. Quel giorno, nel segreto dello studio, trovò l’impulso, presto seguito dal gesto di dipingere. Sì, l’ha fatto, e poi ha provato ancora e ancora.
Con l’eccezione di due o tre ritratti nati dalla sua immaginazione, tra cui questo ragazzo, presumibilmente ispirato a Florent Mattei, piacevole come un contadino Amish nello stile di Grant Wood, Sandra Lecoq dipinge i suoi ritratti da foto, foto di parenti o prese da libri e dalla Rete. Una foto, cioè un piccolo pezzo di astrazione che rivelerà. E così si è buttata a capofitto nell’avventura del ritratto, istintivamente, con un suo stile che, pur non essendo concettuale, non è nemmeno del tutto privo di concetti. Per realizzare i suoi ritratti non ha voluto imparare la tecnica del ritratto, così come non ha voluto studiare la storia del Fayum fino ai giorni nostri per poter affermare con intelligenza l’arte del ritratto a suo vantaggio. In ogni caso, fa tutto ciò che è sbagliato, è nella sua natura. Lei dice di sì e poi ci pensa. Cosa vuoi che sia, c’è chi legge tutto il manuale e chi preferisce premere tutti i pulsanti. Non sempre funziona, ma quando funziona, è un vero spasso, una vera festa. L’altra faccia della medaglia è che la vittoria dell’intuizione ci costringe a ricominciare quasi da zero, a provare ancora e ancora, come Sisifo, il sole che sorge di giorno per poi sprofondare sotto l’orizzonte di notte.
L’avventura è iniziata quasi due anni fa e non è ancora finita, siamo solo alla prima stagione di una nuova serie. È meglio che vi piaccia, perché potreste essere coinvolti per molto tempo. L’opera di Sandra Lecoq non ha pause, non ha epoche, non ha periodi rosa, blu o marroni. Se interrompe il suo lavoro, non taglia mai completamente il filo e riprende da dove si era interrotto, senza flash o annunci, senza clamore, non ha tempo, è una gran lavoratrice. Si definisce selvaggia ma sa essere mondana, come voi e me, le piace stare in silenzio così come le piace parlare molto. In ogni caso, è troppo modesta o immodesta per riconoscere qualche qualità in se stessa. Se ci permettiamo di parlare di lei in questa sede, non è per tracciare un suo ritratto, ma per ricordarci che non siamo lontani da una contraddizione e che la contraddizione stessa può essere un soggetto: gli altri.
A Family in Black è un gioco visivo, il reality show dell’artista, nel senso di un’opera di telepatia e simpatia, che significa che noi siamo la somma degli altri. (Chi ne dubitava?) In questo autoritratto di altri – Un cenno a Gertrude Stein, dove Lecoq-Toklas scompare e si moltiplica per meglio condividere la sua camera d’eco – siamo liberi di ammirare senza ostacoli, di rendere omaggio, di celebrare, liberi di amare la nostra famiglia o di sceglierne un’altra, di appartenere a un insieme, di fonderci dentro o di mandare a quel paese. Il cervello è un baule pieno di persone. Gli altri sono nella testa dell’autore e i volti dipinti un gioco di riflessi di coscienza. Il risultato: una trentina di dipinti, quasi tutti avvolti nel nero, una serie di ritratti saturnini con una linea scura sulle pareti che il bianco difende. Trenta medaglioni, in piedi da soli, che si fissano, si guardano e si parlano nella notte.
Trenta uomini e donne gloriosi, dovremmo nominarli tutti, ma non lo faremo, qui sono citati solo con il loro numero. Dopo tutto, come ci chiamiamo? Lecoq, Lo sa a
culo (2007), vi parla? Alcuni di loro sono nati nel XIX secolo, come il padre della psicoanalisi(SF 0056) o l’autore de La Traversée des apparences(VW 0082), il più giovane ha 17 anni, è il figlio dell’artista(LD 099). Ma su ognuno di questi ritratti brilla la luce di un tempo incerto. È un ritratto di gruppo dislocato: intorno al tavolo, epoche, età, generi, razze, si sono dati appuntamento per volontà esclusiva del pittore. Non crede che gli uomini in nero di un Fantin-Latour abbiano più cose da dire separatamente che insieme? (A proposito, si vedono mai i suoi quadri nella loro interezza?). I ritratti sono specchi che approfondiscono la prospettiva spaziale e temporale. La loro giustapposizione numerica permette di sfuggire alla linearità del tempo, che è piuttosto una somma accidentale di universi, territori e destini. Si passa così dai vivi ai morti, dall’immaginario al reale. Questi ritratti realistici, alcuni dei quali riprendono persino rappresentazioni iconiche e abusate (Lacan, Kahlo, Cassavetes, Woolf, Pasolini), sono, per forza di cose, un allontanamento dalla realtà, il pittore dipinge ciò che vede. E deriva anche dal fatto che gli specchi di Sandra Lecoq, chiamiamoli pure ritratti, sono strumenti del desiderio – sì! l’eterna (e perdente) battaglia tra Eros e Thanatos. Il risultato è un erotismo molto particolare nell’abbigliamento, soprattutto per una persona che non ha mai avuto paura di mostrare le sue cosa molto morbida (2008), del Tappeti per il pene (anni di pratica!), l’interazione movimentata di Fallo e vanità (2008) o il folclore di Le Vit en rose (2007), che ha portato alla censura del colpevole.
Lo specchio degli altri è un’occasione di autoriflessione, introspezione e consapevolezza. Una consapevolezza anche politica. C’è Simone Weil(SV 027): aborto. Cédric Herrou(CH 079): il contadino della Roya, contrabbandiere e simbolo dell’aiuto ai migranti. Leoluca Orlando(LO 047): il maestro di Palermo che apre le porte ai rifugiati in un’Europa chiusa. C’è Pasolini(PPP 022). L’Orestiade africana di Sandra Lecoq è ambientata in Camerun, dove è nata nel 1972, e assume i tratti tragici di Ruben Um Nyobe (CORSA 013), assassinato nel 1958 (all’età di 45 anni) dall’esercito francese, e Félix-Roland Moumié (FRM 025), assassinato nel 1960 (a 35 anni) dai servizi segreti francesi, due figure della lotta per l’indipendenza. Non conosceva questi leader mal eliminati come non conosceva la giovane Eva Hesse(EH 036) o la quasi centenaria Louise Bourgeois(LB 011), ma sono anche la sua storia.
Questo ritratto di gruppo, o gruppo in ritratto, è finalmente l’occasione, a distanza di dieci anni, per ripetere un’esperienza che ha colpito gli animi a Nizza, alla mostra del Dojo: Délicieux cadavres exquis ou l’histoire d’une sainte famille recomposée. Jean-Marc Réol ha dato il benvenuto all’evento con le seguenti parole:
“Non c’è traccia di una presentazione tematica su una questione attuale dell’arte, né di un’interrogazione storico-sociale sul ruolo politico degli artisti, ma piuttosto l’espressione, alternativamente giocosa ed entusiasta, del desiderio di esporre il legame che unisce un gruppo di artisti, in una modalità essenzialmente affettiva e ludica”. A questa “sacra famiglia” appartenevano Noël Dolla, Roland Flexner, Philippe Mayaux, Pascal Pinaud, Philippe Ramette, Olivier Bartoletti, Karim Ghelloussi. ND 045, RF 044, PM 061, PP 064, PR 061, OB 073, KG 077: tutti loro si trovano qui in vernice in questo pezzo di conversazione. Nel 2017, la curatrice della mostra del 2006 ha trovato l’arte e il modo di riunire nuovamente il suo piccolo mondo.
La sera di giugno, dopo un bicchiere di Ben’s jaja, la temperatura sale di una tacca. Questi biglietti d’invito 15 x 21 sono ventagli molto pratici: sul fronte, una foto di spalle dell’artista, la schiena dell’artista è stata trasformata in una tela e in una cornice, il figlio più giovane disegna un pulcino sulla sua pelle, a meno che non si tratti di un gallo, mentre il figlio maggiore scatta la foto. L’intera opera è un autoritratto dell’autore realizzato con la sua famiglia. Il nero è diventato oro.
FM 067